Cosa può rivelare il cervello dopo una sbornia

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIX – 12 febbraio 2022.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE/AGGIORNAMENTO/DISCUSSIONE]

 

L’intossicazione alcoolica acuta, entrata nel costume col nome di sbornia, un termine legato nella cultura popolare a prototipi cinematografici e televisivi che hanno rimpiazzato quelli della narrativa, ma che allo stesso modo presentano l’eccesso sporadico, occasionale o isolato di bevande alcooliche come una possibilità comportamentale lecita, dovrebbe essere sempre evitata, non solo perché sappiamo ormai da decenni che un singolo episodio comporta a livello epatico, già in corso di steatosi alcoolica acuta, una modificazione dell’espressione genica che induce la sintesi di enzimi attivi nelle prime fasi della fibrillogenesi[1], ma soprattutto perché nuoce al cervello.

Non sono pochi i casi di dipendenza alcoolica che sono cominciati con una sbornia fra amici o per assunzione con intenti ansiolitici, caso quest’ultimo in cui rientrano numerosi calciatori, attori, cantanti e altri professionisti dello spettacolo.

Nella tradizione cinematografica, dalle immancabili sbornie dei protagonisti delle commedie brillanti hollywoodiane al film The Hangover (in Italia: Una notte da leoni) – che gioca sul significato della parola che indica il malessere che segue un’ubriacatura per narrare l’assurda situazione in cui si trovano i protagonisti al risveglio dopo essersi ubriacati – si rileva una concezione irrealistica e per molti versi fanciullesca dell’abuso alcoolico episodico[2].

L’intossicazione acuta da alcool etilico o etanolo in soggetti non etilisti e senza comorbidità con altri disturbi psichiatrici è indicata nell’ICD-10-CM e DSM-5 dal codice F10.929, e negli USA presenta una rilevante prevalenza statistica, proprio a causa della diffusa convinzione sottoculturale in quel paese dell’innocuità delle sbornie, testimoniata da una quota del 70% degli studenti di college che nel 2010 ammetteva di essere stato ubriaco almeno una volta nel corso dell’anno[3]. E, nello stesso studio, gli studenti avviati al completamento della high school facevano già registrare il 44% di positivi alla sbornia nell’annata. Dalle indagini sociali condotte su quel campione e su campioni statistici statunitensi più recenti si evince una mancanza di conoscenza e responsabilità dei rischi legati anche a una singola sbronza. Inoltre, come il nostro presidente rileva fin dalla fondazione della nostra società scientifica, negli USA come in Europa è quasi del tutto ignorato il problema degli alcoli diversi dall’etanolo, come gli alcoli polinsaturi, presenti nelle bevande alcooliche (birra, vino, champagne, spumanti, vini liquorosi, ecc.)[4] e agenti sul cervello con effetti di ebbrezza – che si sommano a quelli dell’etanolo – di breve durata, ma la cui intensità può variare molto da soggetto a soggetto, risultando sempre più marcata nelle donne.

Premesso, dunque, che l’intossicazione acuta alcoolica va sempre evitata, e non va banalizzata, la realtà epidemiologica ne rileva un incremento anche nel nostro paese, soprattutto fra i giovani e i giovanissimi. Infatti, le tradizioni di grande consumo di alcolici e superalcolici erano bollate dai giovani di alcuni decenni fa come “rozze, vecchie abitudini da persone ignoranti del passato”, ma ormai negli ultimi vent’anni sono ritornate come mode, tra giovani sempre più influenzabili e influenzati dalle tendenze, accanto al consolidato uso di sostanze psicotrope d’abuso e, fra queste, anche dei derivati della cannabis, protetti dalla legislazione corrente.

L’incremento dell’abitudine a prendere sbronze sta ponendo da qualche anno all’attenzione di clinici e ricercatori il problema della sindrome che segue l’ubriacatura, generalmente esperita al risveglio dopo il sonno indotto dall’alcool e ormai convenzionalmente definita con il termine inglese hangover. Le manifestazioni di questo malessere includono cefalea, con sensazione di cerchio o di peso, obnubilamento sensoriale, abbassamento della soglia per la percezione di intensità di stimoli acustici e luminosi, pesantezza, affaticamento e talvolta sete, nausea, vomito e gastralgia, più spesso come pirosi. Circa il 12% degli adulti[5], durante questa fase di sofferenza da eccesso di alcool, avverte ansia e, in una percentuale non trascurabile, è prostrata dallo stato di sofferenza.

Il mio interesse per gli aspetti clinici di questa sindrome mi ha portato a cercare di capire quali siano le differenze reali fra chi sviluppa ansia o grave angoscia dopo eccesso di alcool e chi non avverte alcun turbamento o presenta altri disturbi psichici. Proporrò alcune mie riflessioni facendo riferimento a uno studio pubblicato alcuni mesi or sono, che ha direttamente affrontato il problema di un’alterazione della normale capacità di regolazione emozionale causata dall’intossicazione alcoolica.

(Craig Gunn, et al. Does Alcohol Hangover Affect Emotion Regulation Capacity? Evidence From a Naturalistic Cross-Over Study Design. Alcohol and Alcoholism 56 (4): 425-432, 2021).

La provenienza degli autori è la seguente: Addiction and Mental Health Group, Department of Psychology, University of Bath, Bath (Regno Unito); Utrecht Institute for Pharmaceutical Sciences (UIPS), Division of Pharmacology, Utrecht University, Utrecht (Paesi Bassi); Centre for Human Psychopharmacology, Swinburne University, Melbourne (Australia).

Nel recupero fisiologico dell’organismo gravato dall’eccesso di acetaldeide che il fegato non riesce a smaltire, avviato automaticamente dal sonno, il riequilibrio delle condizioni di base della fisiologia somatomotoria degli arti sembra avvenire, sia pure lentamente, durante la sindrome post-sbornia, che sembra però dominata al livello encefalico da uno stato di stress funzionale.

In altri termini, gli studi più recenti provano che, nonostante le sensazioni di peso, spossatezza, rallentamento ideomotorio associati spesso a sonnolenza esperiti dal soggetto, nel cervello è riconoscibile il pattern caratteristico da attivazione dei sistemi dello stress.

Coerentemente con questo rilievo, l’hangover causa innalzamento dei livelli di cortisolo ematico e degli altri ormoni dello stress, i cambiamenti del sistema immunitario tipici, e l’aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca secondo i modi tipici degli stati ansiosi.

Fra i cambiamenti più evidenti rilevati nei sistemi neurotrasmettitoriali delle grandi reti neuroniche cerebrali vi è la diminuzione di attività dei circuiti dopaminergici. Questo aspetto sembra essere significativo perché, accanto alle più note funzioni motorie e psichiche cui le cellule nervose che segnalano mediante dopamina forniscono un apporto fondamentale, c’è anche la regolazione delle reazioni ansiose quale processo che richiede l’importante contributo della segnalazione dopaminergica. Si tende a spiegare con questo squilibrio l’estrema difficoltà a gestire anche piccoli stress da parte del soggetto: durante l’hangover ogni genere di sollecitazione, peso o minaccia va ad aggiungersi a uno stato già alterato di fondo.

L’interessamento dei sistemi dopaminergici cerebrali non motori è stato particolarmente studiato da Ashley D. Howse e colleghi che in un lavoro pubblicato su Psychophysiology [55 (8): e13081, 2018] hanno rilevato e dimostrato che l’hangover impatta l’apprendimento e il processo di ricompensa agendo al livello della corteccia frontale mediale.

Dunque, possiamo ragionare così: visto che l’intossicazione acuta alcoolica genera un assetto di risposta allo stress e che le sbronze sono prese spesso trascorrendo buona parte della notte svegli a bere, possono interessarci gli effetti della deprivazione di sonno associata allo stress per cercare di comprendere la fisiopatologia dell’hangover. In effetti, la combinazione di questi due fattori comporta potenzialmente disturbi dell’umore, con tendenza depressiva, e riduzione di efficienza cognitiva, interessando memoria, apprendimento e attenzione.

Un’altra particolarità dell’hangover consiste nel fatto che la costellazione sintomatologica può generare al suo interno circoli viziosi o effetti di potenziamento. Ad esempio, alcuni pazienti troppo preoccupati nell’affrontare il problema della nausea, nel cercare di evitare il vomito e nella gestione delle altre manifestazioni di origine neurovegetativa, non mettono in atto le misure necessarie a contrastare lo sviluppo dell’assetto funzionale ansioso, anzi, con l’inerzia motoria e la preoccupazione, finiscono per accrescere l’attivazione dei sistemi dello stress, con la conseguente diseconomia entropica.

Lo studio di Craig Gunn e colleghi, condotto su 45 volontari tra i 18 e i 30 anni non fumatori e non affetti da alcun disturbo da consumo di alcool e sottoposti a un compito di laboratorio che impegna la regolazione emotiva, ha dimostrato che le persone durante l’hangover fanno sistematicamente esperienza di uno shifting emozionale negativo, dovuto a una modalità di funzionamento principalmente attribuibile all’iper-attivazione dei sistemi dello stress.

Il neuroimaging funzionale del cervello di persone con intossicazione acuta alcoolica rivela infatti, in coloro che sperimentano ansia, l’iper-attivazione dei sistemi dello stress con le tipiche immagini del setting cerebrale conseguente, mentre in coloro che non avvertono ansia, paura o altri intensi stati emozionali, non rivela differenze significative con i volontari di controllo che non hanno assunto alcool. Come è noto, la fisiopatologia dell’ansia è differente dalla semplice reazione di spavento o paura improvvisa, e implica l’attivazione di meccanismi interni – come quello del locus coeruleus – che generano a circolo vizioso la particolare condizione di funzionamento in assenza di una minaccia reale materialmente presente nel mondo esterno.

Tale assetto funzionale richiede tempo per svilupparsi e, ordinariamente, segue un periodo di stress prolungato. Il prodursi di ansia senza eventi riconosciuti dal soggetto come ansiogeni o stressanti è stato spiegato dal nostro presidente con l’ipotesi dell’accumulo quotidiano in forma di processi elettrofunzionali di memoria sinaptica degli effetti di numerosi stimoli sottosoglia fino al raggiungimento di una soglia, superata la quale, si istaura il quadro funzionale dell’ansia.

Adottando questo riferimento, possiamo ritenere l’azione dell’alcool sui sistemi neuronici corticali e sottocorticali rivelatrice di una condizione di accumulo di memorie di stimoli a bassa intensità, ma di qualità negativa. In altri termini, seguendo questa possibilità che ricorre come ipotesi negli studi di Giuseppe Perrella, non siamo costretti a saltare dal livello di una generica predisposizione genetica intesa quale specifica genomica presente alla nascita, e perciò congenita, al livello, anche questo generico ma in questo caso “ideale”, dell’azione dell’etanolo sui sistemi neuronici cerebrali, assunti come funzionalmente identici in tutte le persone nell’astratto modello della “fisiologia normale”. In psichiatria si adoperano interpretazioni basate su concezioni psicologiche che cercano di colmare il gap esistente tra livello neurobiologico conosciuto e attualità del singolo paziente, facendo ricorso alla teoria delle personalità e, come si legge anche nel DSM-5 – oltre che nei trattati con più solide fondamenta psicopatologiche –, alla “tendenza al neuroticism”; termine che appare come un esito della “teoria delle nevrosi”, quale parte della dicotomia paradigmatica nevrosi/psicosi, abbandonata ma non del tutto superata.

Gli strumenti adoperati in psichiatria cercano di spiegare le differenze fra persone nella risposta all’intossicazione alcoolica sulla base dei modelli psicologici di descrizione degli eventi mentali, ma è evidente che si tratta di differenze, comunque prodotte, nel funzionamento attuale di cervelli, e dunque, in quest’ottica, interessanti come effetti di “esperimenti involontari”.

Lo studio di Gunn e colleghi ha rilevato in termini psicologici, oltre a una generale tendenza al versante negativo dell’equilibrio emozionale, una maggiore difficoltà di regolare le emozioni rispetto al gruppo di controllo. Lo stesso Craig Gunn ha riferito, commentando lo scorso 4 febbraio in un’intervista per il sito The Conversation, che la sua impressione era che i volontari sotto effetto dell’intossicazione alcoolica si sentissero male ma non avessero la forza di reagire; e poi diceva che, quando hanno chiesto loro di controllare le emozioni in un compito sperimentale al computer, risultavano capaci di controllo tanto quanto i volontari sobri del gruppo di controllo. La differenza, almeno in apparenza, era solo il notevole sforzo che dovevano compiere gli intossicati da alcool per ottenere una prestazione del tutto ordinaria e agevole per il gruppo di controllo e per qualsiasi altra persona in condizioni normali.

Gunn ritiene che la maggiore difficoltà richiesta nel regolare le emozioni spieghi lo sviluppo di ansia. In altri termini, le alterazioni prodotte dal carico di etanolo sul cervello ridurrebbero l’efficienza di regolazione emozionale e – secondo Gunn – questo difetto di regolazione sarebbe la causa dell’ansia. Questa ci sembra una spiegazione generica della possibilità, che non rende conto del fatto che alcune persone sviluppano ansia ed altre no, e poi non formula alcuna ipotesi circa il meccanismo.

Al riguardo è opportuno considerare che numerosi psichiatri e ricercatori, particolarmente negli USA, considerano l’ansia dell’hangover del tutto peculiare e diversa, per intenderci, da quella dei classici disturbi d’ansia dell’esperienza clinica quotidiana: un’ansia che non sembra essere il portato di una psicopatologia che, disturbando le basi cerebrali della funzione psichica, porta un’attivazione abnorme e protratta dei sistemi neuronici che mediano lo stato di allarme e gli equivalenti umani della fight or flight response, ma un semplice sintomo prodotto dall’alterazione metabolica che investe anche il cervello, e si estingue spontaneamente con l’estinzione dello stato tossico. Questa visione ha portato addirittura a coniare un nuovo termine, che si è già diffuso attraverso la divulgazione via web: “Hangxiety” per indicare solo ed esclusivamente l’ansia dell’hangover.

In precedenza, gli stessi ricercatori avevano affrontato in un altro setting sperimentale il problema dell’influenza dell’hangover sulle funzioni mentali esecutive[6], allestendo prove sperimentali per analizzare in modo specifico e accurato – come non era ancora stato fatto – tre costituenti-chiave del modello di unità/diversità delle funzioni esecutive: 1) l’abilità di regolare l’attenzione, 2) l’aggiornamento dell’informazione nella working memory, 3) la capacità di mantenere gli obiettivi. Le conclusioni cui giunge lo studio sono che una sbornia da etanolo compromette temporaneamente processi cerebrali chiave per le funzioni mentali esecutive, importanti nella vita quotidiana, come prendere decisioni, pianificare e usare flessibilità mentale.

Questo risultato è importante, perché le abilità mentali che normalmente usiamo per contrastare l’ansia e lo sviluppo mentale di pensieri ansiogeni in gran parte si avvalgono del sostrato neurofunzionale delle abilità esecutive. Si può osservare che, in passato, si rilevava la capacità della reazione a cortocircuito di decorticare, isolando i circuiti prevalentemente sottocorticali dal controllo della corteccia prefrontale, e si considerava l’ansia – quale attivazione ciclica endogena dei sistemi dello stress – effetto di un processo simile, in quanto espressione di un disturbo al controllo inibitorio neocorticale da parte delle proiezioni del circuito limbico (amigdala, in particolare) diffuse alla corteccia. Queste nuove evidenze possono considerarsi come un piccolo passo in avanti che, anziché accontentarsi della generica dicotomia sistema limbico/sistemi neocorticali, circoscrive ai circuiti implicati in attenzione, memoria di funzionamento, pianificazione e flessibilità le parti disturbate dall’ansia.

Tuttavia, si può proporre una riflessione critica sull’interpretazione fornita da Craig Gunn e colleghi, in questi termini: se l’eccesso di alcool riduce il controllo inibitorio della corteccia – e su questo non vi sono dubbi perché agisce più sui neuroni corticali che su quelli limbici – l’ansia può prodursi semplicemente per effetto della disinibizione limbica, cioè dei sistemi dello stress e, tutt’al più, il meccanismo di inefficienza dei sistemi esecutivi può contribuire a far permanere lo stato ansioso un po’ più a lungo. In altri termini, il primum movens è l’azione dell’alcool sulla corteccia, e l’inefficienza dei sistemi esecutivi è una delle conseguenze.

Rimane il problema del perché alcuni sviluppano ansia e altri no, al quale più sopra ho dato una risposta che posso riassumere così: l’ansia compare nelle persone in cui l’effetto della sbornia, sommandosi a quelli di altre esperienze negative recenti, è sufficiente a far raggiungere la soglia. Ma non è questa la visione degli autori di questi studi, che considerano la comparsa dell’ansia dipendente da un tratto di personalità.

Infatti, Craig Gunn risponde a questa domanda facendo l’esempio dei sintomi algici che seguono l’abuso acuto di etanolo, e dice che il dolore è sempre presente in questi casi, sia che si tratti di cefalea sia di dolenzia muscolare, ma vi sono persone che tendono a interpretare “catastroficamente” il dolore, e queste persone sono quelle che fanno esperienza dell’ansia con maggiore probabilità. Personalmente ritengo l’opposto, per scienza ed esperienza clinica: è lo stato di sofferenza ansiosa che, a gradi elevati, si esprime con un’ideazione pessimistica o addirittura, per usare il suo termine, “catastrofica”. In altre parole, anche qui l’espressione cognitiva (ideazione) è conseguenza dello stato di squilibrio entropico e sofferenza che chiamiamo “ansia”, e non la causa.

Ma continuiamo a seguire i commenti di Gunn.

Andando avanti sulla questione dell’ansia nell’hangover, osserva che le persone con maggiore probabilità di essere ansiose, in generale, sono più suscettibili di esperire hangxiety. Secondo il meccanismo ipotizzato da noi questo è ovvio, perché con ogni probabilità sono sempre abbastanza vicine alla soglia. Prosegue poi con alcune considerazioni non specifiche, che riporto per completezza di esposizione: dice che eventi esistenziali negativi, depressione, rabbia mentre si beve, senso di colpa per l’aver bevuto e anche alcuni tratti di personalità sono legati ai cambiamenti di umore nello stato di intossicazione; riferisce che sono stati riportati livelli di hangxiety più elevati in chi si vergogna di ubriacarsi, e mette questo in relazione con i sintomi di un disturbo da consumo di alcool. La conclusione di Craig Gunn sembra più che condivisibile: il miglior modo per evitare il problema dell’ansia dopo una sbornia è non bere alcoolici del tutto o, al massimo, bere con moderazione.

La mia conclusione di questa discussione di aggiornamento è che il cervello dopo un episodio di intossicazione acuta alcolica rivela aspetti propri dello stato funzionale precedente l’episodio e, soprattutto, che lo studio in questo campo dovrebbe proseguire costruendo protocolli sperimentali aggiornati alle conoscenze neuroscientifiche recenti, con minore approssimazione teorica, maggior rigore metodologico e chiarezza di obiettivi.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-12 febbraio 2022

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Questo vuol dire che dopo un solo episodio di danno epatico da alcool già l’organo si prepara ad accrescere la biosintesi di fibrille che, proseguendo le sbornie e le reazioni steatosiche acute, evolverà verso la fibrillogenesi interlaminare delle epatopatie alcooliche intermedie che, in assenza di sospensione dell’assunzione di alcool e adeguato trattamento evolvono frequentemente in cirrosi epatica.

[2] Concezione che appartiene anche ai “miti narrativi di genere” seguiti dagli autori dei copioni.

[3] AA.VV. Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders DSM-5TM, p. 498, American Psychiatric Association, Washington 2013. La percentuale è anche più alta oggi, come si evince dai dati preliminari di uno studio ancora in corso.

[4] Presenti anche nei superalcoolici, nei quali la massiccia presenza di etanolo li rende effettivamente poco rilevanti ai fini della valutazione di effetti e danni da intossicazione.

[5] Joris C. Verster, et al. Journal of Clinical Medicine 8 (10):1520, 2019.

[6] Craig Gunn et al., The Effects of Alcohol Hangover on Executive Functions. Journal of Clinical Medicine 9 (4): 1148, 2020.